I testi dei primi classificati al Concorso letterario ‘ La Felicità Ritrovata’ 2020
SEZIONE A – Racconto singolo in lingua italiana a tema libero
TI CI PUOI SPECCHIARE – GABRIELE ANDREANI
Il mio entusiasmo è alle stelle. Non entro in una caffetteria da un numero a cinque cifre di docce fredde e da una quantità impressionante di elettroshock esorcizzanti. Ordino una cioccolata bollente, la mia amica un bicchiere di latte caldo con una spruzzatina di cacao.
«I tuoi occhi mi ricordano il disastro di Černobyl. Sono tremendamente radioattivi» dice Emma mentre mi guardo intorno stordito dalla gioia.
«I tuoi sono bellissimi. Sembrano perle azzurre incastonate nel silenzio verde di un cielo elettrico» le dico io.
«Sono senza passato né futuro. Ti ci puoi specchiare, se vuoi. Non ci troverai né aghi né spille né tantomeno puntine da disegno.»
Penso che dovrei dirle che non vedo alcuna relazione tra la mia fobia dei piccoli oggetti acuminati, le radiazioni di una centrale nucleare e i suoi meravigliosi occhi, quando una donna sulla sessantina con una vistosa spilla sul risvolto del tailleur entra dalla porta principale della caffetteria.
Cambio subito espressione. Divento immediatamente color aringa affumicata. Le gambe sono ipotese, le mani dispositivi meccanici agonizzanti. L’entusiasmo che avevo provato solo un attimo prima è già svanito, eclissato, affogato nel gorgo morboso di quella spilla.
«Andiamo via di qui, Emma!» dico con aria stravolta. «Sento che sto per avere una crisi.»
Emma fissa il bicchiere di latte e un attimo dopo lo solleva dal tavolino. Lo fa con una calma inaudita, quasi pilatesca, che mi dà sui nervi. Sembra che non abbia udito le mie parole o, se le ha udite, di non aver dato loro il giusto peso. Eppure sa che non sono il tipo che va in corto circuito per un niente.
«La mia infanzia è in questo latte» dice, sospirando.
«Mandalo giù in fretta. Sbrigati» le faccio io, stringendo i denti per non ululare.
«Che ti prende, Terenzio?» fa lei guardandomi attraverso il vetro spumoso.
«Una spilla, una stramaledetta spilla mi sta torturando il cervello!»
Emma dà una rapida occhiata in giro per il locale, guarda furtiva la donna con la spilla appuntata sul tailleur, scrolla il capo con furore e vuota tutto d’un fiato il latte.
«Va meglio, adesso, Terenzio?» mi domanda quando siamo fuori dal locale.
Nel timore che il riflesso della spilla risplenda nel suo sguardo, evito di guardarla negli occhi. Però le dico che lo stato crepuscolare nel quale stavo per precipitare è di nuovo in modalità stand-by.
«E ora dove si va?» mi dice, sorridendo appena.
«Non lo so. Non ne ho la minima idea.»
Dopo qualche secondo mi viene in mente, chissà perché, la Federiciana. Dovrebbe essere da queste parti, penso, a meno che non l’abbiano sventrata per farci un centro commerciale o una friggitoria. In quella biblioteca, quando ero un ragazzo, avevo trascorso molte ore consultando fitti volumi che trattavano argomenti riguardanti i disturbi del pensiero, i disturbi ossessivi – compulsivi, i sentimenti di autosvalutazione e i pensieri di morte ricorrenti. Certi giorni, soprattutto quelli in cui avevo il cervello infestato dalle paranoie, avevo persino messo a ferro e fuoco il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.
«In una biblioteca!» esclamo con tono un po’ snob.
«Davvero? Davvero si va in una biblioteca?» domanda Emma, spalancando gli occhi. «Oh, quanto mi fai felice, Terenzio! Non sai da quanto tempo volevo piangere illusioni attraverso le vertigini di pagine piene di pathos.»
«Quel tempo è arrivato.»
Quella che sul momento mi sembrava un’ottima idea, un minuto dopo non lo era più. Era una scelta che nascondeva parecchie insidie: due pazzi freschi d’evasione, in pigiama e ciabatte, dall’aspetto agofobico e bipolare, pallidi come una mostruosa melanconia, che ci fanno alle nove di mattina nella biblioteca meno demenziale e più antiparkinsoniana della città?
Espongo le mie perplessità alla mia amica. Lei mi guarda come si guarda un depresso nevrotico che si autoaccusa di errori immaginari. Poi dice:
«Terenzio, ascoltami con attenzione: una qualunque biblioteca, anche la più scalcagnata, non è la camera iperbarica di coloro che presentano ridotti livelli di normalità nel cervello? il centro d’igiene mentale di chi soffre di disorientamento tecnologico? la gabbia di Faraday di chi è affetto da intelligenza anticonformistica?»
Annuisco.
«Inoltre» continua «gli scrittori più geniali e i poeti più feroci non traggono ispirazione dalle crisi di angoscia, dalle amnesie di evocazione e dai disturbi dissociativi quando scrivono le loro opere migliori? I deliri onirici e le fantasie abnormi non sono responsabili delle tragedie meno terrene, corporee e disintossicanti che si possano immaginare?»
Annuisco di nuovo.
«In pagine magnifiche non sono nascoste le arcane formule della sofferenza psichica?»
Annuisco per la terza volta.
«E allora affrettiamo il passo, Terenzio. Andiamo a conquistare la Federiciana!»
Alla Federiciana ci sono pochissime persone, tre o quattro in tutto, compreso l’addetto alla registrazione dei prestiti. Non tutte le luci sono state accese: molti libri sono ancora avvolti nell’oscurità schizofrenica del mattino. Alcuni stanno lottando ferocemente contro la polvere per poter attraversare indenni il tempo rubato all’oblio.
Mi avvio a passo spedito verso la sala riservata alla saggistica, Emma s’incammina a passettini felpati in direzione della ludoteca.
Dopo aver rovistato a lungo tra gli scaffali, un piccolo volumetto scritto in francese che s’intitola Principes de sagesse et de folierapisce la mia curiosità. Mi siedo a un tavolo privo di spigoli e incomincio a leggerlo iniziando dall’ultima pagina, da quella in cui l’autore è meno prolisso e più sincero.
Sto sottolineando con una matita una frase sovraccarica di valori emotivi, quando un grido selvaggio risuona in tutte le sale, rimbomba in tutto il centro storico, echeggia in tutta la città. Riconosco immediatamente da quale sorgente è sfuggito quel suono inarticolato, e dopo aver richiuso il libro con un tonfo, mi dirigo in fretta verso la ludoteca.
Emma, a cavalcioni sul davanzale di una finestra, minaccia di buttarsi nel vuoto. A pochi metri da lei, una bambina riccioluta di circa nove anni si copre il viso con un cuscino.
«Allontanala da me!» strilla Emma quando mi avvicino alla finestra. «Ti prego, mandala via.»
«Chi?» domando io.
«Lisetta, la piccola fiammiferaia. Un attimo fa ha tentato di appiccare il fuoco al mio pigiama.»
«Rimani immobile dove sei. Vado in cerca di un estintore.»
Quando ritorno, Emma è a faccia in giù sul pavimento. Le più belle fiabe di Andersen, Il Piccolo Principe, Senza famiglia, Le avventure del barone di Münchausen e altri volumi per ragazzi sono avvolti dalle fiamme. Sembra che il fuoco l’abbia voluta risparmiare, abbattendosi come una furia solo sui libri. Afferro Emma per un braccio e la trascino fino all’uscita.
«Ti sei fatta male?» le domando quando si rialza.
Con una mano mi indica i pantaloni del pigiama. «A parte questa insignificante bruciatura, sto benone» dice, sibilando tra i denti.
«Potevi romperti l’osso del collo o morire tra le fiamme» dico io, passandole una mano tra i capelli anneriti dal fumo.
«E quello cos’è?» grugnisce improvvisamente lei.
«L’estintore» rispondo. «L’avrei usato se uno spillo infilato nell’impugnatura non mi avesse paralizzato le dita.»
Un istante dopo, temendo che qualcuno dei presenti abbia allertato il 115 o il 118, usciamo a spron battuto dalla Federiciana.
Il cielo si sta ornando di pennellate grigie quando, sfiniti e senza più forze, ci infiliamo per la porticina che si apre sugli Orti Giuli, una piccola oasi floreale incastonata tra le vecchie mura di quella parte della città.
Deliquescenti e disperati come chiodi conficcati nell’oblio del giorno ormai prossimo a declinare l’ultimo riverbero di luce, ci lasciamo cadere su una panchina, fredda come una compressa di Rivotril.
Osservo le nuvole. Le più cenerognole vagano silenziose verso il sole che, abbandonato il meriggio, sta disegnando il suo arco verso occidente in direzione dei monti Sibillini, immensi e caldi. Ai nostri piedi, come ai piedi di due sculture abbandonate, in uno strano gioco di luci e ombre, con i petali vermigli ripiegati sulle foglioline malaticce, i serici pistilli accesi di melanconia, gli stami deliranti e giallognoli, un piccolo ospedale psichiatrico floreale a cielo aperto deborda da un’aiuola in modo folle e inatteso. Fiori appariscenti, bizzarri, sensitivi, ipocondriaci e fantasmagorici reclamano la loro libertà. Colgo il fiore più ribelle e lo infilo nella scollatura di Emma.
«Qual è il suo nome?» mi domanda lei alla fine di un lungo silenzio.
«Non lo so» dico io. «Diamogliene noi uno.»
«Coco Mademoiselle ti piace? Coco Mademoiselle era il profumo preferito della mia mamma.»
«È un nome bellissimo» dico io. Poi, accortomi che si è fatta improvvisamente seria, aggiungo:
«A che pensi, Emma?»
«Alla nostra infelice situazione, alle tue fobie, alle mie allucinazioni, alla piccola fiammiferaia…»
«La piccola fiammiferaia era un’incendiaria, una piromane in gonnella!» tuono.
«Ti sbagli, Terenzio» ribatte lei. «Lisetta ha appiccato il fuoco al mio pigiama per riscaldarsi dal freddo pungente che le scivolava nelle ossa. Non voleva farmi del male, la piccina. La piccina stava…»
Emma non finisce la frase. Il suo volto si trasforma in una maschera di terrore. Si alza in piedi e incomincia a gesticolare, muove le gambe come se andasse in bicicletta, gracchia come una radio impazzita, ma il suo linguaggio è inintelligibile. Qualche minuto dopo si arresta di colpo, e con l’aria indifferente e serafica di chi ha resettato la sua memoria recente, si risiede sulla panchina accanto a me.
Le chiedo se sia opera del topo quella specie di ballo di San Vito.
Emma crede di avere una sorta di grosso topo dentro di sé. Quando è eccessivamente depressa, il topo entra ed esce dal suo cuore, ne interrompe i battiti, scivola tra i vasi sanguigni, ne succhia il sangue e sputa sugli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina i poco digeribili globuli bianchi. Nei periodi di benessere psicofisico, il topo si limita a starnutire ma il suo comportamento è imprevedibile perché soffre di disturbi dell’umore ed è sensibile agli sbalzi di temperatura.
«Osvaldo ha starnutito» fa lei. «Con questo freddo, dev’essersi preso un brutto raffreddore.»
Capisco che non c’è un minuto da perdere: un tenace pallore sta imbiancando le sue guance. Se non addormento al più presto Osvaldo, Emma cadrà in depressione; se cade in depressione, Osvaldo attaccherà l’arteria coronaria; se attacca l’arteria coronaria, lei spirerà tra le mie braccia.
Frugo nella sua borsetta fino a quando non trovo il clarinetto di legno. Me lo metto in bocca e inizio a suonarlo. Le guance di Emma si colorano di rosa.
«Come incantatore di topi sei un vero dipsomane, Terenzio» mi dice mentre suono il Requiem in D Minore di Mozart. «Osvaldo si è addormentato non appena hai preso la prima stecca.»
«Ho imparato da te» dico, immergendo gli occhi nella profondità del suo sguardo.
Mentre ripongo il magico strumento nella borsetta, un fremito mi corre lungo la schiena. Avrei voluto abbracciarlo quello sguardo, spettinarlo, annusarlo, coprirlo di baci, scompigliargli le deliziose vulnerabilità, ma non faccio nulla di tutto questo. Temo che il topo ricominci a starnutire. Crollo sulla panchina e cado in una specie di deliquio.
Quando mi risveglio, un solenne silenzio, appena spezzato dal cinguettio di uno smergo australe[2], mi coglie di sorpresa. Guardo Emma attraverso quel silenzio. Ha il viso tirato di chi è iperteso. Scruta fisso davanti a sé. Giro anch’io la testa in quella direzione: una sagoma d’uomo acquattata dietro lo scheletro di un olmo ci sta spiando. Indossa una maglietta fucsia a maniche corte con la scritta SONO PSICOPATICO NON POSSO ESSERE ANCHE MAGRO e in una mano regge quella che ha tutta l’aria di essere una camicia di forza.
Provo una violenta contrazione allo stomaco. Emma sembra una statua di marmo.
Terrorizzati, schizziamo entrambi in piedi e ci avviamo rapidamente verso l’uscita attraverso l’aiuola.
Una volta fuori svoltiamo di corsa in direzione di piazzale Degli Innocenti, dove ci fermiamo per qualche secondo per annusare l’odore di SONO PSICOPATICO NON POSSO ESSERE ANCHE MAGRO. Nell’aria quell’odore non c’è. Finalmente siamo tornati di nuovo a respirare il sole.
«Dove facciamo tappa, ora?» chiedo debolmente a Emma.
«Ti va di andare sulla ruota panoramica, Terenzio?»
«Sei fuori di testa, Emma? Sulla ruota panoramica siamo facilmente individuabili. Te li immagini due psicotici gravemente deteriorati, un uomo e una donna, l’uomo con un disturbo del controllo degli impulsi, la donna con una personalità allucinatoria, che si danno fellinianalmente alla dolce vita su una giostra?»
«Dai, fammi questo regalo, Terenzio! Per anni ho sognato di salire su una ruota panoramica.»
«Un giro solo, però» dico con riluttanza.
Emma mi lancia un bacio.
Quando siamo sulla ruota panoramica, Emma è euforica e io lo sono più di lei. Mai ho provato una gioia simile, mai ho riso con così tanta allegria. Questa è per me un’esperienza tonificante, una specie di tuffo in un sogno a occhi aperti. Anche l’uomo che avrei desiderato essere e che non sono mai stato esulta attraverso il mio sorriso.
Quando la ruota si ferma nel punto più alto, Emma si alza, volge gli occhi al sole che sta per tramontare e, ridendo seria, dice:
«Sole, portami nel regno senza fine delle anime imperfette, altrimenti segnate da un infausto destino. Cullata dai tuoi caldi raggi potrò così volteggiare nel blu infinito come un angioletto sul suo triciclo di stelle. Se esaudirai questo mio desiderio, scaglierò lontano, molto lontano, un dardo del tuo eterno fuoco affinchè il mio tramonto non sia anche il tuo.»
Poi, esausta e senza più fiato, si accascia nella cabina e attacca a piangere.
Con un fazzoletto le asciugo le lacrime. Dal suo sguardo capisco che sono lacrime di commozione quelle che in quel momento le illuminano il viso.
«Non scendere» le dico alla fine del giro. «Ne facciamo subito un altro e poi ancora altri mille. Staremo qui fino a quando non sarai sazia del sole.»
Il sole non lo respira da almeno quindici anni, Emma. Da quando è stata internata in manicomio non sa neppure di quale colore sia o che aspetto abbia. Per lei e anche per me il sole rappresenta il mondo dei non morti, il mondo di chi ha retto ai conflitti della vita, di chi non è stato degradato a cosa, di chi, infine, non ha mai conosciuto la solitudine della propria angoscia e la molteplicità del proprio essere.
«Che ore sono?» mi domanda Emma mentre tocchiamo terra.
«Le otto quasi» dico, stringendola con forza contro il mio petto.
«Rientriamo? Senza le mie pillole, ho paura di commettere qualche pazzia.»
Faccio di sì con la testa.
Quando, quella stessa sera, Emma raccontò a un’infermiera la bella giornata che aveva appena trascorso, questa le disse che l’avventura che credeva di aver vissuto era stata solo un’allucinazione. Ma poiché lei sosteneva il contrario e giurava che era tutto vero, l’infermiera, prima di farle l’iniezione serale di benzodiazepine, affermò che un altro paziente aveva creduto di vivere la sua stessa esperienza. Emma non le disse nulla del cofanetto di luce che il sole le aveva lasciato nel cuore, come suo ricordo, prima di sparire dietro le nuvole. Quel cofanetto conteneva il sapore di un bicchiere di latte, il profumo di un fiore ribelle, una goccia di Coco Mademoiselle e il mio sorriso.
Ora che sono quasi arrivato alla fine dei miei giorni e sempre più spesso mi guardo indietro con malcelata nostalgia, sono più che certo che quella giornata indimenticabile non è stata un’allucinazione. Quel giorno, da Harnold’s, alla Federiciana, agli Orti Giuli, sulla ruota panoramica, per la prima volta dopo molti, molti anni, mi sono sentito invaso da un’angosciante serenità. Anche le fobie che sono riuscito finalmente a sradicare sedevano accanto a me in tutti i posti in cui sono stato con Emma, la deliziosa, amorevole, spaesata e sfortunata Emma. Quanto alla sua decisione di togliersi la vita – libera scelta o scelta coatta? – non posso fare altro che stendere un pietoso velo carico di affetto nei confronti di Emma. Lei tribolava molto più di me. Era prostrata dalla sofferenza. Con il ricordo di quella memorabile avventura se n’è andata a cavallo del sole verso un’estate senza tempo.
SEZIONE B – Racconto singolo a tema ‘La felicità ritrovata’ Come superare un trauma, dopo eventi catastrofici o esperienze dolorose
COME UN’ESPLORATRICE NEL SUO VIAGGIO DELL’ANIMA – RAFFAELLA MAMMONE
«Va tutto bene», diceva il dottore, «adesso chiuda gli occhi e si rilassi, si concentri sulla mia voce». Un suono, quello, che sembrava provenire da un luogo lontanissimo, un altrove segreto e nascosto in uno dei quattro angoli della stanza in cui si trovavano, quasi a miglia di distanza. Un suono però dolce, suadente cui avrebbe tanto voluto riconoscere il potere di placare quel forte e devastante senso di rabbia che la pervadeva. «Provi a riposarsi, si concentri su quanto è stanca, poi, lentamente si immagini una bambina, quella è lei. Mi descriva dove si trova.» – Faceva come le aveva detto, anche se tenere gli occhi chiusi le costava ulteriore nervosismo.“Ma cosa c’entrava adesso la bambina che era stata?”– si domandò in silenzio.“Mah”, pensò, mentre tutti i dubbi del mondo la assalivano. Aveva accettato di sottoporsi all’ipnosi solo per l’estrema fiducia che riponeva nello psichiatra che la seguiva da anni, per gli attacchi di panico e tutte le situazioni incresciose che nella vita le era capitato di dovere affrontare e per cui aveva sentito la necessità di una ”guida”, anche se poi, di fatto, alla guida era sempre rimasta lei stessa. Adesso lo sapeva. Eppure si ritrovava lì, di nuovo, in preda allo sconforto di non riuscire a gestire la rabbia che le covava dentro come il magma nel vulcano prima della fase del picco esplosivo. Al pari del fuoco proveniente dall’interno della Terra, quel sentimento distruttivo ribolliva infatti nel profondo della sua anima in pena, distrutta dal dolore. «Quella bambina sta giocando? Piange, ride? Cosa fa?», insisteva il dottore. Ma cosa voleva? Sicuramente svuotarla dalla rabbia e farla sentire leggera come un pezzo di legno che galleggia trasportato dalla corrente, una piuma che si libra nell’aria sospinta dal vento, e mentre lei invece continuava ad arrovellarsi prosciugando la speranza dentro di sé, il suono di quella voce proseguiva così piacevole che sembrava impossibile stesse conversando proprio con lei, devastata e persa in quel disequilibrio o squilibrio della mente e del corpo. Cominciava a sentirsi confusa, forse perché nel profondo sperava che quella voce carezzevole riuscisse a persuadere la sua mente rattrappita abbattendo lo scetticismo che faceva da barriera tra lei e il mondo intorno ormai da troppo tempo. Forse esistevano davvero parti del cervello e luoghi della mente che così come si raggrinzivano avviluppandosi su sé stesse potevano distendersi, aprirsi, allargarsi ancora come in un miracolo. Proprio quello in cui aveva sperato prima che Marco morisse. Ma era diverso. Avrebbe voluto porre delle domande, ma sapeva che non poteva, il medico le aveva premesso che occhi e bocca avrebbero dovuto restare chiusi e che lei si sarebbe solo dovuta abbandonare, ma non ci riusciva, dentro di sé scalpitava e si rese conto che sì, la vedeva la bambina, stava giocando, era lei. Provò tenerezza e malinconia e una profonda tristezza. Avrebbe voluto accarezzarla per non restare ancora una volta spettatrice di sé stessa, ma non poteva. Tutto sembrava ruotare attorno a questo smisurato senso di impotenza e di rabbia. Seduto di fronte a lei il dottore la guardava sempre più perplesso alla vista di quel volto paonazzo e sudato, mentre l’altro, lo psichiatra, restava pubblico silenzioso relegato nel suo angolino di stanza; l’ipnotista cominciò a farsi delle domande che poi sicuramente avrebbe rivolto a lui. Molte cose risuonavano dentro ciascuno, con intensità e direzione differenti, quando, d’un tratto, Daria strinse più forte gli occhi, dopo aver sbirciato i volti dei suoi interlocutori, cercando di trattenere le lacrime che cominciarono ad inondarle le guance. La bambina era tra le braccia del suo meraviglioso papà, che le sorrideva. Realizzò quanto le mancasse quel sorriso, quanto le mancasse poter parlare con suo padre, quell’uomo così incredibile e incredibilmente rassicurante. Realizzò quanto avrebbe voluto poterlo chiamare, urlando o meglio sussurrando il suo nome, più spesso di quanto già non facesse ogni volta che andava a dormire. Papà, papà! Aiutami ti prego. Aiutami a trovare la forza, fa che io sia un poco grande quanto lo sei stato tu, fa che io trovi un luogo, una persona, delle braccia che mi facciano ricordare le tue….”papà”…disse a voce alta senza accorgersene. E pianse.
Il silenzio regnava sovrano. Le sembrò strano che nessuno parlasse, che nessuno dei due interlocutori rinchiusi in quella stanza con lei cercassero di dire una sola parola che la consolasse o che le ponessero delle domande. Strano davvero. Si udivano solamente le voci dei partecipanti al corso di yoga che stava per cominciare nella stanza adiacente, tutte persone splendide che aveva avuto modo di conoscere e frequentare, persone dalle quali sarebbe corsa senza pensarci nemmeno un minuto di più. Invece era costretta a restare seduta su quella poltrona, gli occhi bagnati e il silenzio. Respirò a fondo, poi espirò lentamente per tornare a concentrare i suoi pensieri. «Va tutto bene, apra lentamente gli occhi. Così, brava, va meglio?» – chiese il medico grassoccio alla sua destra. Poi, senza aspettare risposta, si rivolse allo psichiatra e, con aria un po’ infastidita, gli domandò perché mai gli avesse sottoposto proprio quella signora come paziente, perché avesse consigliato a lei di provare con questa esperienza a risolvere il suo problema di controllo della rabbia, che era clamorosamente fallito. «Non ti rendi conto che la paziente è sotto choc?» – disse – e poi, rivolgendosi alla donna: «Lei è un osso duro, signora, è impossibile ipnotizzarla. Ma cosa le è successo?». A quel punto la smorfia di dolore sul volto di Daria si trasformò lentamente in disillusione: ogni altra parola che veniva proferita sembrava innervosirla sempre di più. Pur tuttavia accennò un sorriso rassegnato a nascondere lo scetticismo che, ora lo sapeva, avrebbe fatto bene a non mettere da parte e rispose semplicemente che aveva perduto tragicamente e ingiustamente la persona più importante della sua vita, ma se quello era il suo destino lo avrebbe percorso fino in fondo e a testa alta. Perché adesso sapeva che non esistevano pozioni magiche, né terapie, né “soluzioni” per soffocare il dolore, per smaltirlo velocemente o addirittura per dimenticarlo. Il dolore va assecondato e lasciato scorrere fino a che il fiume in piena di quelle emozioni devastanti trovi il modo di diluire spontaneamente le sue acque confluendo in una realtà rinnovata, guardando nella direzione della corrente che, sempre nuova, sfocerà, come nelle acque immote di un lago, in una tranquillità dell’anima che oramai si pensava per sempre perduta. Era questa la speranza che teneva custodita nel suo cuore distrutto. Provava rabbia in quel momento, non era giusto che il suo medico la avesse convinta ad esporsi all’ennesima attesa delusa. “Io vado”, disse concisa, e prese la borsa per pagare. «Desidera la fattura?» – chiese l’uomo panciuto improvvisamente avulso dal ruolo delicato e comprensivo che aveva impersonato fino a qualche minuto prima. Non sollevò nemmeno lo sguardo dai fogli che fissava sparsi sulla scrivania davanti a lui per rivolgerle un’occhiata, evidentemente non voleva influenzare la sua risposta. Stringendo le dita a pugno, Daria lo guardò con freddezza, quasi tentata di andar via e basta. Invece rispose: “Certamente, grazie.” A quel punto l’ipnotista cominciò a sputacchiare qualche parola alzando finalmente lo sguardo verso di lei: «Deve allora lasciarmi i suoi dati e gliela spedirò via e-mail non appena possibile.» Quasi le veniva da ridere a quel punto, così sciolse le dita dal pugno chiuso e gli porse la mano per salutarlo, fece lo stesso con lo psichiatra che aveva assunto un’espressione rammaricata, sempre recluso e muto nel suo angolino e con la fretta di andare anche lui. Così terminò quella che era stata sicuramente la seduta più orribile di tutta la sua esperienza di pratiche psicoterapiche. Di fronte all’ineluttabile di una vita che le aveva riservato tale e tanta sofferenza, una vita destinata, le sembrava, ad essere ormai spesa in solitudine, cominciò a pensare che fosse il caso di scegliere percorsi poco complicati e più leggeri, così decise che quella sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbe rivolta ad uno specialista per cercare di lenire la sofferenza dell’anima, e che se la rabbia voleva essere la voce prepotente con la quale gridare al mondo che non le stava affatto bene tutto questo, allora lo avrebbe accettato facendoselo addirittura piacere, quand’anche ne avesse dovuto pagare le conseguenze.
“Vorrei sapere cosa pensi di me quando mi pensi.” – le scriveva Riccardo irrompendo a sorpresa in quel pomeriggio strano. Fissando il display del cellulare una insolita espressione le si disegnò sul viso: era tra un ghigno amaro e, paradossalmente all’opposto, una smorfia che tradiva un segreto piacere e così, con una particolare luce negli occhi, prese a rispondergli: – Te lo spiego a voce. – “Non vale.”, scrisse lesto lui. Ma cosa stava col telefono in mano? Pensò.- E’ più bello a voce. – insisté. “Io penso sempre a quanti tramonti e a quante albe con te avrebbero sfumature mai viste, a come le tue mani saprebbero imparare in fretta i percorsi sulla mia pelle, a come le mie braccia ti terrebbero al sicuro e a come le nostre bocche si scambierebbero quei respiri che ci mancano…”. Ebbe un attimo di esitazione, temporeggiando tra comprensibili sensi di colpa e la curiosità e la voglia di addentrarsi non solo in quella conversazione ma anche nello spazio imprevisto e sconosciuto dove distingueva un pezzettino di sé stessa, per quanto fosse consapevole del fatto che per il momento riusciva a vederlo solo sfocato e in lontananza, ma c’era. Inaspettatamente. “So che con te non mi sentirei più sola…”, avrebbe voluto rispondere, ma non lo fece. Aveva bisogno di fare un passo indietro per non obbedire all’impulso, forte come la rabbia, di riempire quello che non era proprio un vuoto dentro il suo petto ma una voragine, un abisso profondo e ancora troppo oscuro che era diventato il centro di sé e del suo corpo ormai. Come fosse un pianeta orbitante attorno a due stelle nane a migliaia e migliaia di anni luce dalla Terra, al centro della Via Lattea, si sentiva lenta e rallentata, senza gravità, come dispersa in quello spazio infinito dove anche la minima distanza era percorribile solo ad una velocità che avrebbe richiesto anni. Ma, fissando di nuovo il cellulare vide riflesso il suo volto: persino in quella immagine in penombra riusciva a percepire una minuscola luce. Una speranza le si allargò nel cuore, inattesa e benvenuta, per quanto la sua forma riflessa la sconcertasse contemporaneamente: le sembrò che sul suo viso, come d’altronde era stato vero sin dall’inizio, non si leggesse la catastrofe che l’aveva investita, non traspariva nulla di tutto il dolore e la tristezza che invece sentiva ancora appesantirle il cuore. Era convinta che gli occhi avessero assunto una forma diversa per come li percepiva gonfi e socchiusi, per come riusciva a malapena a guardare la realtà come attraverso due fessure semichiuse: stretta, minuscola, distante. Ma la verità era che il mondo non si accorgeva né di lei né delle espressioni del suo volto, né, probabilmente, di nessun tipo di sofferenza altrui che gli scorreva davanti più o meno indifferente. Un altro messaggio al cellulare arrivò ad interrompere la malinconia che la stava assalendo e che sempre più dilagava con il moltiplicarsi di quelle considerazioni. “Tu mi devasti. Mi sequestri il cuore, i pensieri, il respiro.” – continuava Riccardo imperterrito. – Non devastarti. – gli rispose. “Non posso averti, come mi dovrei sentire?”, insistette lui. A quel punto non era più sicura di intravedere ancora quel barlume di curioso desiderio di approfondire il discorso e la conoscenza con quest’uomo che nemmeno aveva cercato e che, sì, le era piaciuto ma si rendeva sempre più conto che ragionavano e si muovevano su binari assolutamente paralleli. Improvvisamente si sentì come violata, profondamente infastidita, ma non voleva che gli altri pagassero il conto al posto suo, che quel rancore che si era impossessato di lei scavasse un solco insormontabile nelle sue relazioni sociali. Riccardo poi era un uomo veramente interessante, gentile, dai modi garbati. In realtà non era stato nemmeno assillante. Normalmente avrebbe corrisposto in maniera persino divertente l’interesse che le aveva esternato, ma aveva appena deciso di adottare una linea differente, morbida senz’altro ma definitiva, di distacco. Quando il dolore diventa assoluto dentro di te e ti attraversa rendendoti del tutto trasparente e sottile, dopo un po’, in antitesi, erige un compatto muro di cemento armato tra te e l’esterno, tra te e le emozioni, tra te e la capacità di sognare ancora. Il buonsenso e il suo cuore irrimediabilmente buono tentava di salvare giusto quel minimo di ragionevolezza nel tentativo di non isolarsi completamente, così decise di essere il meno brusca possibile con Riccardo, nel rispetto dei suoi sentimenti e soprattutto del suo mondo interiore che non conosceva. Non le sarebbero appartenute frasi di commiato, era intenerita da quell’uomo e sperava comunque di non perderlo, ma adesso sentiva, di fronte all’ineluttabile solitudine di cui era piena la sua esistenza, di doversi proiettare in un’ottica di maggiore spensieratezza, che non le era mai appartenuta se non come meta da raggiungere. “Perché mi maltratti?” – interruppe i pensieri lui, quasi li avesse segretamente ascoltati. – Sinceramente non capisco come possa sentirti maltrattato da me. Non pretendo che tu comprenda, ma non intendo e non posso consentirmi di coltivare attese destinate ad essere deluse. Quindi trovo inutile discutere dei se e dei ma o dei forse, peggio ancora dei perché, meglio ridurre al minimo realistico il contenuto di questo legame e della conversazione, che non puoi proseguire a tingere dei rosei colori di un sentimento come l’amore che non è esattamente l’abito adatto qui e adesso. – sentì di rispondere Daria sperando di essere stata diretta ma non brusca. – Mi piacerebbe molto riuscire a corrisponderti, gettarmi tra le tue braccia e ritrovare me stessa. Tu rappresenti una pausa felice, un’oasi di tranquillità, ma non posso dimenticare di essere sola in mezzo al deserto e di doverlo ancora percorrere a lungo fino, almeno, al prossimo villaggio, come un’esploratrice nel suo viaggio dell’anima. Adesso, forse, ho bisogno del “Gran mare di sabbia”, totalmente privo com’è di qualunque traccia umana, bisogno di seguire con lo sguardo solo l’infinito susseguirsi di cordoni di dune deserte proseguendo, tra inenarrabili bellezze costruite dal vento, in un paesaggio di raro incanto, la mia personale e solitaria avventura, perché il vero luogo magico siamo noi. Noi da soli nel silenzio intorno. Dentro di me convivono aride consapevolezze ma anche vivide speranze. Quindi tu non c’entri, spero vorrai capire. – concluse e si fermò in una pausa che vide muto anche Riccardo, talmente a lungo che credette non le avrebbe più risposto. “Come il deserto, sei una terra dai forti contrasti. Sei…il tutto e il nulla, il fantastico impossibile. Vorrei trovare quelle giuste, ma le parole mi si accavallano nel cuore in una corsa inutile, perché adesso ho capito che è impossibile raggiungerti, attraversarti, arrivare in qualche modo a te. E così muoiono dentro di me, sulla soglia delle mie speranze. Come le onde di uno Tsunami, generate impulsivamente dalla massa di emozioni e desideri, lasceranno dietro di sé solamente detriti. Non riesco a darti conto dell’immensità che respiro quando sono con te, della gioia che solamente tu riesci ad allargare nel mio cuore, sento tutto talmente intensamente che alle volte ho paura di restare senza respiro. E invece ho tolto a te il tuo senza volere. Perdonami.” Se, in quel momento, qualcuno le avesse chiesto di calcolare il valore della costante di gravitazione universale, che resta il più difficile da misurare di tutte le costanti della natura, sarebbe stato sicuramente più facile, pur nella consapevolezza delle interazioni gravitazionali tra i due (s)oggetti che, nello specifico, erano Riccardo e lei, che rispondere alle parole che aveva appena letto. Si sentiva percorsa da correnti che si muovevano in direzioni opposte, creando dentro di lei una forza repulsiva sempre più forte e vibrante. I sentimenti di lui avrebbero dovuto lusingarla, eppure si percepiva, al confronto, inadatta, minuscola come una biglia di vetro dai mille colori che ruzzolava veloce dentro una grande ruota e poi ne veniva espulsa per precipitare, senza una meta, verso l’ignoto, che, paradossalmente, sembrava essere la sola cosa certa dentro di sé. Eppure qualcosa doveva pur rispondere! Attese qualche minuto, prese un bel respiro e scrisse: – Riccardo, sei quel filo d’erba che, tenace e testardo, continuerà a spuntare nel giardino dei miei pensieri e, stanne certo, ogni volta vederlo mi farà battere il cuore. La morte di Marco ha raso al suolo tutto dentro di me, e fino a te credevo non esistesse più terreno fertile, spazi tra il cemento in cui veder nascere fiori. Ora però ne vedo uno, e sei tu. Forse un giorno riuscirò di nuovo ad aprirmi alle emozioni, ma prima sento di dover fare i conti con la me stessa di oggi. Fino a che la mia vita scorrerà tra un tentativo e l’altro di resistere, nella disperazione di non sapere come poter stare meglio, non ti coinvolgerò. Preferisco rimanere l’unica vittima delle elucubrazioni mentali dolorose cui la vita, alle volte, ti costringe. Tornerò. E sarò di nuovo capace di sentirmi viva dentro ad un bacio, respirare in una bocca, restare al caldo in una mano…, nel frattempo vivrai nella mia dimensione intima, profonda, assolutamente muta. A presto. – “E’ che con te…il mondo diventa improvvisamente giusto. Poi te ne vai e…”, rispose di getto lui senza saper resistere. Ma quello fu l’ultimo messaggio che si sarebbero scambiati per moltissimo tempo.
Il sole cominciava ad avviarsi al tramonto quella sera, colorando di sfumature rossastre le cime delle montagne che finivano nel mare. Daria respirò profondamente, si scompigliò i capelli con le dita e sentì che i pensieri si liberavano lentamente dalle catene per spiccare voli di gabbiano in quel cielo così immenso, sorvolando il mare aperto in una direzione del tutto insperata. Avvertì un sollievo improvviso mentre lasciava che lo sguardo vagasse, catturato dalla fantastica attrazione che quello spettacolo esercitava su di sé. Non avrebbe mai pensato prima che il deserto interiore potesse diventare il viaggio più importante della sua vita. Si sentì protetta da quelle montagne, dal mare sconfinato, dagli uccelli, le nuvole, l’aria; si sentì protetta dalle nuove consapevolezze. Si trattenne a lungo, lì seduta ad ammirare il mondo dove sapeva che avrebbe ancora lottato, ma era certa che avrebbe anche, ancora, sognato. Contemplò di nuovo quello scorcio e sentì intensamente di essere libera, di essere uscita da sé stessa per diventare tutt’uno con quelle nuvole che occupavano l’intero campo visivo. Impregnò quell’immagine di emozione, prese un quaderno e cominciò a scrivere.
Il suo animo si colmò di infinito.
“Dio creò il deserto affinché gli uomini potessero conoscere la loro anima.”
SEZIONE C – Poesia singola in lingua italiana a tema ‘La felicità ritrovata’ Come superare un trauma, dopo eventi catastrofici o esperienze dolorose
GRAVIDA DI SPERANZA – ALESSANDRA BUCCI
Gravida di speranza,
alle soglie del parto,
arranco a fatica
la rupe scoscesa
dei miei domani
certa che, oltre il fiume
d’animata speme
nel quale affogare affanni,
dal mio ventre fecondo
nasceranno fiori di sillabe
dal profumo intenso
delle poesie di maggio
spuntanti come rose
fra i ghiacci dell’inverno
ad annunciare vagiti
di luce fra le tenebre
della mia inquietudine
che scorre e si dilegua
come se non fosse mai nata.
SEZIONE D – Poesia singola in lingua italiana o in dialetto con traduzione a tema libero
CI SONO PERSONE – GABRIELLA PACI
Rimangono negli annali del tempo
lassù sullo scaffale alto del cuore
un volto, una voce, un’abitudine …
Ci sono persone che non ci lasciano
mai davvero e continuano a
colmare la misura mai sazia dell’amore
di sorrisi, parole, gesti comuni.
Si annidano negli spazi irrisolti dei
sentimenti e percorrono il dedalo
dei pensieri per affacciarsi nel
cammino dei giorni e viverci insieme.
Il tempo della memoria le trattiene
negli oggetti , nelle stanze d’aria e pareti,
nella luce pavida dell’alba , nell’ombra
della notte e tu le vedi nelle tue mani,
nei tuoi passi, nella tua voce che
dentro le chiama per nome.
E’ questo un colloquio d’amore
che non ha bisogno di parole .
SEZIONE E –Testo singolo a tema ‘La felicità ritrovata’ Come superare un trauma, dopo eventi catastrofici o esperienze dolorose (per giovani under 18 e classi di istituti di scuola media superiore)
APATIA – VIOLA NERI
Il 24 agosto 2016 fu il giorno più brutto della mia vita. Eppure era cominciato così bene! Scoccata la mezzanotte avevo soffiato insieme a mia sorella le candeline sulla nostra meravigliosa torta di compleanno a due piani, brindando alla maggiore età insieme agli amici più cari, ed anche le tre ore successive erano state da sogno: avevamo ballato, cantato, scartato regali stupendi… era stato tutto perfetto, proprio come avevo sempre sognato. Poi alle 3:36 la prima scossa. Le pareti avevano tremato, i bicchieri avevano tintinnato, qualche piatto era caduto a terra. Per un attimo nella discoteca di Rieti era calato il silenzio. Poi c’erano state urla, grida. Molti si erano nascosti sotto i tavoli, terrorizzati. Ma la terra non aveva più tremato. E così, dopo alcuni minuti, qualche temerario aveva osato riprendere a ballare, finché presto la pista da ballo fu di nuovo piena di visi allegri e sorridenti. L’incubo cominciò venti minuti più tardi, quando il mio telefono squillò: era mio fratello. Controvoglia, risposi. -Si, lo so, è tardi, ma si compiono diciotto anni solo una volta nella vita, e la festa é all’apice del suo splendore!Tuttavia, alla risposta che seguì avrei preferito il temuto rimprovero. -C’è stato un fortissimo terremoto nel nostro paese. Mamma e papà non rispondono al telefono. Dobbiamo andare a casa, ora!All’improvviso non mi importò più nulla della festa, né tantomeno degli invitati. Strappai mia sorella alle amiche con cui stava ballando e la trascinai fuori dal locale. Mio fratello ci aspettava lì davanti, pronto a partire per il viaggio più devastante della nostra vita. Premette l’accelleratore e volammo sull’asfalto, senza rispettare alcun limite di velocità. Noi non incontrammo traffico, ma nella corsia opposta, nonostante fossero le 4 passate, una lunga fila di macchina impediva una scorrevole circolazione. La gente fuggiva dal terremoto: noi invece ci andavamo contro. Mia sorella passò un’ora a chiamare i miei genitori, mentre la nostra speranza si faceva più fievole a ogni riposta della segreteria telefonica. Io invece ripensavo alla discussione che avevo avuto con loro prima di uscire di casa. Io avevo insistito che mi lasciassero dormire a Rieti, ma non c’era stato verso di convincerli: era troppo lontano. Mi avevano detto che ci avrebbero portato loro, ma io non volevo i miei genitori intorno al mio diciottesimo. Alla fine avevamo trovato un accordo: ci avrebbe accompagnato mio fratello. Ma io avevo continuato ad essere arrabbiata, ed ero uscita sbraitando loro contro che non avevo bisogno del babysitter. Dopo più di un’ora, quando ormai le luci dell’alba cominciavano ad illuminare il cielo, arrivammo ad Accumoli. Ma non ci fu permesso di entrare. Dei volontari della Croce Rossa e della Protezione Civile ci chiesero di scendere dalla macchina e ci condussero in un centro di emergenza allestito sul momento. Chiedemmo notizie dei nostri genitori, ma questi ci mostrarono delle brande vuote dove poter trascorrere la notte. Come se dormire fosse un’opzione anche solo immaginabile: c’era gente che urlava ovunque, donne che piangevano, bambini che chiamavano la mamma. Domandammo di nuovo dei nostri genitori, ma ricevemmo la stessa identica risposta: il silenzio. La mattina seguente, verso le 10, ci comunicarono che mamma e papà erano morti. Mio fratello tirò un pugno al muro. Un pezzo di intonaco cadde a terra, e lui si ruppe il polso. Mia sorella scoppiò in un pianto violento e cominciò a singhiozzare come un animale al macello. Io, invece, rimasi impassibile. Mi buttai sulla mia branda e giacqui lì per cinque giorni, vestita solo con l’abito elegante del mio compleanno. Era l’unica cosa che avevo, insieme a delle scarpe con tacco dodici, una piccolissima borsetta, il mio telefono, 20 euro e un rossetto. Tutto il resto, come i miei libri, i miei vestiti, il mio computer… tutto il resto era polvere.
Non piansi mai, né tirai pugni al muro. Non gridai nemmeno, non avevo ragione per farlo: dentro di me non provavo più nulla. Avevo smesso di avere delle emozioni nell’esatto momento in cui ero venuta a sapere della morte dei miei genitori. Smisi di mangiare, di dormire, perfino di parlare. Ero diventata un burattino: restavo immobile finché non mi veniva detto di fare qualcosa L’unica cosa che facevo era ripensare di continuo alle ultime parole che avevo scambiato con mia madre. -Vaffanculo!- le avevo gridato, in preda all’ira -ho diciotto anni, posso fare quello che voglio!-Potrai fare quello che vorrai solo quando sarai fuori da questa casa- aveva risposto lei, calma. In quel momento avevo desiderato con tutta me stessa di essere già all’università, lontana. Ora avrei dato qualsiasi cosa per poter entrare un’ultima volta nella mia casa, ed abbracciare mia madre. Il sesto giorno mi fecero alzare. Mi fecero fare la doccia, poi mi diedero dei vestiti neri. La taglia era giusta, ma mi pungevano sulla pelle. Poi mi fecero salire su una macchina, e, dopo qualche minuto di strada, lo sportello si aprì davanti a una Chiesa. Era il funerale dei miei genitori. Lo odiai: c’era tantissima gente e tutti volevano abbracciarmi, baciarmi, farmi le condoglianze. Tutti piangevano. Persino coloro che non li avevano conosciuti sembravano più disperati di me. Dicevano di comprendere il mio dolore, ma questo era impossibile: io non provavo dolore, né tristezza, o una qualsiasi altra emozione. Sentivo solo un immenso vuoto, come se mi fossero stati risucchiati tutti i sentimenti, e di me fosse rimasto un corpo fatto di carne, e nient’altro. Mi sforzai di piangere, di versare almeno una lacrima, perché non volevo che le persone pensassero che fossi una figlia insensibile. Io amavo i miei genitori. Li avevo amati, con tutta me stessa. E non riuscivo a immaginare un mondo senza di loro. Ma nonostante questo, le lacrime non ne vollero sapere di rigarmi le guance. Uscii dalla Chiesa prima che la Messa funebre fosse terminata. Non baciai le bare; non potevo accettare l’idea che in quelle scatole di freddo legno fossero racchiuse le uniche due persone che, nonostante tutti i miei sbagli, mi avevano sostenuta e amata dal primo istante della mia vita, che avevano supportato qualsiasi mia scelta e che non mi avevano mai dato modo di dubitare del loro affetto. Uscii, ed incurante delle barriere, feci un giro tra le macerie. Nessuno mi fermò: era ora di pranzo, e gli operai incaricati di rimuoverle erano in pausa. Così camminai indisturbata per le strade deserte e difficilmente praticabili del piccolo paesino dove ero nata e cresciuta. Era a stento riconoscibile: la maggior parte delle abitazioni era crollata, c’erano macchine distrutte, polvere ovunque. Dei luoghi dove avevo trascorso gran parte delle mie giornate a studiare o giocare con gli amici non restava che qualche frammento. Prima che potessi rendermene conto, mi ritrovai davanti a casa mia: non esisteva più. Dove prima c’erano le camere, ora c’era il cielo. Solo la cucina faceva eccezione: il muro portante era ancora in piedi, insieme a uno stralcio di pavimento. Il tavolo dove ogni mattina, per diciotto anni, mi ero seduta a fare colazione era in bilico per miracolo, con due gambe oltre il baratro. Dopo il funerale andammo a vivere dai miei nonni. La loro era una delle poche case del borgo rimasta in piedi. I nonni erano gentili e comprensivi, e cercarono di darci tutto ciò di cui avevamo bisogno: ci comprarono vestiti nuovi, libri, trucchi, borse, perfino computer, ed ogni giorno la nonna cucinava i suoi piatti migliori. Tuttavia non riuscivamo a essere felici. Un giorno sentii i miei fratelli discutere animatamente. A cena annunciarono che ce ne saremmo andati: non riuscivano più a sopportare di vivere tra le macerie, in un paese fantasma con una manciata di abitanti, e in cui ogni cosa ricordava continuamente loro ciò che avevano perso. A me in realtà non dispiaceva stare lì: la desolazione di quel luogo rispecchiava il vuoto della mia anima. Ma sapevo che i miei fratelli sarebbero stati distrutti se li avessi abbandonati, così li seguii. Con i soldi che ci avevano lasciato i nostri genitori affittammo una piccola casa in città, vicino all’Università di mio fratello. Ambientarsi fu piuttosto arduo: eravamo tre ragazzi cresciuti tra i prati in fiore, mentre ora, qualunque fosse la direzione del nostro sguardo, c’era solo cemento. La ripresa della scuola non facilitò le cose: io ero la ragazza nuova, la povera orfanella che non aveva ancora elaborato il lutto, quella compatita da tutti. Mi sedevo ogni giorno nell’ultimo banco
in fondo, da sola, e mi alzavo dalla mia sedia solo al suono dell’ultima campanella. Passavo l’intera mattinata a contemplare il muro, senza parlare con nessuno, senza prendere appunti, senza fare i compiti, senza studiare. Quando venivo interrogata facevo scena muta, nelle verifiche lasciavo i fogli in bianco. Nonostante ciò, avevo la sufficienza in ogni materia, perché ai miei professori facevo pena. Ed anche ai miei compagni: un pomeriggio mi invitarono a studiare con loro. Furono gentili e provarono in tutti i modi a inserirmi nella conversazione, ma io rimasi in silenzio per quattro ore. Non mi chiesero più di uscire. Il resto del tempo lo trascorrevo stesa sul letto, a osservare il soffitto senza pensare a nulla, senza provare nulla. Impiegavo le mie giornate a sentirmi vuota, sensazione che si ingigantiva se pensavo ai miei genitori. Quando il flusso dei miei pensieri prendeva quella direzione, il vuoto sembrava inghiottirmi e farmi sprofondare sempre di più verso il basso, verso un abisso profondo da cui non c’era via d’uscita, in cui non c’era luce. In quei momenti mi sembrava di non riuscire più a respirare. Di non riuscire più a vivere. Uscivo dalla mia stanza solamente alle otto, quando venivo chiamata per cena. Fosse stato per me sarei rimasta a giacere nel mio letto, ma mio fratello sentiva su di sé tutta la responsabilità del capofamiglia, e si preoccupava per me. Se all’ora convenuta non mi fossi seduta a tavola, sarebbe venuto a bussare alla mia porta, e sarebbe rimasto lì anche tutta la notte a implorarmi di mangiare qualcosa. Così, per risparmiare ad entrambi questo desolante teatrino accaduto già troppe volte, alle otto ero lì, pronta a ingoiare qualsiasi cosa ci fosse nel piatto. Un giorno lui, preoccupato per il mio costante stato di apatia, provò a parlarmi, convinto che un trimestre di studi in Psicologia gli avesse insegnato come aggiustare le persone. Rendendosi conto del fallimento, mi supplicò di andare da una vera psicologa. Lo accontentai, ma fu un inutile spreco di soldi: non pronunciai una parola per tutta la seduta. Al contrario di me, dopo alcuni mesi gli altri abitanti della casa, seppur lentamente ed a fatica, cominciarono a riprendere in mano le loro vite. Mio fratello non tirava più pugni, o almeno non al muro: si iscrisse a box. Mia sorella non piangeva più, anche se ogni tanto la notte, quando credeva che nessuno la sentisse, soffocava i suoi lamenti nel cuscino. E mentre io continuavo a non provare nessuna emozione, loro tornarono perfino a sorridere, prima di rado, e poi sempre più spesso. Nello specifico, il sorriso di mio fratello aveva il nome di una ragazza. Era bella e con un fisico invidiabile, ma io proprio non riuscivo a capire cosa lui ci trovasse in lei: rideva in continuazione ed in modo sguaiato, e passava tutti i pomeriggi da noi, come se non avesse una casa. Mi sforzai di sopportarla, o perlomeno di fingermi contenta per loro, ma fallivo costantemente. Una domenica a pranzo, infastidita dal fatto che lei fosse rimasta a dormire a casa mia sia venerdì che sabato, feci notare a mio fratello che li aveva dimenticati in fretta, i nostri genitori. Alle mie parole calò il silenzio nella stanza. Lui si alzò in piedi di scatto e mi gridò che non mi sopportava più, che ero un ingrata, e che non ce la faceva più a sostenere ogni giorno il mio sguardo freddo, apatico, insensibile, che gli ricordava continuamente ciò che aveva perso, e che gli rendeva difficilissimo anche solo provare ad alzare di nuovo lo sguardo verso l’alto. -Che cosa credi, eh? Che mamma e papà sarebbero felici di vederti così?Io mi alzai da tavola e andai in camera mia, sbattendomi con violenza la porta alle spalle. Due ore dopo mio fratello venne a bussare, e lo feci entrare. Tutta la sua rabbia sembrava essere sparita per lasciare il posto a un tono dolce e comprensivo. Si sedette sul mio letto, e si scusò per ciò che aveva detto. Poi mi spiegò che la sua ragazza aveva perso i genitori e le due sorelle nel terremoto di Amatrice. Così si stavano aiutando a vicenda a sorridere di nuovo, perché non importava quanto si avesse sofferto: ognuno meritava di essere felice. Aggiunse anche che io avrei potuto capire solo se avessi trovato una persona che mi amava allo stesso modo. Ma per me questo era impossibile: io detestavo la gente. Tutti erano in grado di compatirmi, nessuno di amarmi. Anche mia sorella sembrava cambiata: era solare e allegra, a volte la si sentiva canticchiare sotto la doccia, e usciva tutti i giorni, per poi tornare la sera tardi con un sorriso stampato sul viso. La sua felicità, proprio come quella di mio fratello, doveva la sua esistenza all’amore, ma non a quello di un ragazzo, al contrario: si era scoperta totalmente e follemente innamorata di Dio.
Il suo percorso di fede era cominciato nell’ora più buia: il funerale dei nostri genitori. Al contrario di me, era rimasta per tutto lo svolgimento del rituale, e per la prima volta nella sua vita si era ritrovata a pregare: aveva pregato affinché le cose potessero andare meglio, affinché le fosse possibile superare tutto questo. E, a detta sua, aveva ricevuto una risposta. Così da quel giorno aveva cominciato ad accogliere la parola del Signore, ad andare in Chiesa tutte le domeniche, e a comportarsi da ottima cristiana. Ora faceva beneficienza, trascorreva il suo tempo con gli anziani, aiutava i bambini meno fortunati a fare i compiti, e si sentiva una persona nuova. -Vieni in Chiesa con me, domani- mi pregò, un sabato sera -vedrai che ti piacerà!Sperava che anche su di me la Messa potesse avere un influsso benefico, ma si sbagliava, e di grosso. Se Dio davvero esisteva, non capivo come avrei potuto amarlo: egli aveva permesso che i miei genitori morissero, e che la mia intera esistenza venisse distrutta in una sola notte. Mia sorella continuava a insistere che solo aiutando gli altri avrei potuto aiutare me stessa. Ma io non volevo davvero aiutarmi: in fondo stavo bene nella mia apatia, senza provare dolore. Un freddo giorno di febbraio salii sul tetto. Volevo solo fuggire da quella casa dove mio fratello e la sua fidanzata stavano facendo un dolce, scherzando in continuazione e ridendo per le cose più stupide, mentre mia sorella pregava ad alta voce da ore. Eppure, avvicinandomi alla balaustra per osservare il grigio panorama cittadino, mi ritrovai a pensare a come sarebbe stato lasciare che il mio corpo precipitasse verso il basso fino a raggiungere il suolo. Immaginai il mio funerale, le parole del prete, le poche persone che avrebbero pianto per me… ma avrebbero pianto solo il mio corpo: la mia anima era morta con i miei genitori, sepolta sotto le macerie di casa mia, durante il terremoto di quel lontano 24 agosto. Da quel giorno io avevo smesso di esistere. Sì, la mia vita da quel momento era consistita solo nel trascinare un pensante corpo vuoto. In fondo vivere così non aveva senso. E non sarei mancata a nessuno: non avevo amici, e i miei fratelli… per qualche mese ci sarebbero stati male, ma presto avrebbero capito che stavano meglio senza di me. Se mi fossi buttata sarebbe stata la cosa migliore per tutti. Era la decisone migliore. Tuttavia, quando poi mi sporsi, intenzionata a porre fine una volta per tutte alla mia patetica vita, non ebbi il coraggio di lasciarmi andare. Ero troppo spaventata dall’idea di provare dolore, anche solo per un istante, e capii che non ce l’avrei mai fatta. No, se volevo uccidermi avrei dovuto trovare un modo che mi permettesse non provare nulla. I sonniferi mi sembrarono un’ottima soluzione. Ne avrei ingoiata un’intera scatola, magari accompagnata da un bicchiere di alcool per essere sicura della riuscita: nei film funzionava sempre. Rinvigorita da questa nuova risoluzione, mi precipitai di corsa giù dalle scale e uscii dal palazzo, incamminandomi spedita verso la farmacia più vicina, determinata a far sì che quella fosse la mia ultima passeggiata. Ero quasi arrivata alla meta, quando sentii una musica in lontananza. Era una melodia armoniosa, vivace ma decisa, in cui sembrava che il pianoforte e i violini giocassero a nascondino tra loro, rincorrendosi tra le note. Fui come rapita da essa: i miei piedi cominciarono a seguire la direzione da cui proveniva, e non mi resi nemmeno conto di aver superato la farmacia. Mi fermai davanti a un alto edificio di mattoni. La musica proveniva da dentro. Alzai gli occhi, e lessi le insegne colorare: era una scuola di danza. Senza pensarci, entrai. Mi trovai in un’ampia sala con gli specchi e le sbarre alle parete. L’ambiente, l’odore della pece, il rumore delle scarpe sul parquet mi fecero tornare alla mente sensazioni e ricordi che pensavo di aver ormai perso per sempre: avevo cominciato danza all’età di quattro anni e un tempo che sembrava ormai molto lontano, un luogo come questo era stato la mia seconda casa. In tutti questi mesi, mai un una volta mi aveva sfiorato il desiderio di ballare. Ma ora, questo irruppe più prepotentemente che mai. Mi sentii trascinata da quella musica, dal ritmo acceso del violino, dalle dolci note del pianoforte, come se questa si fosse impossessata di me e avesse colmato in un istante il vuoto della mia anima. Per la prima volta dopo più di sei mesi mossi di nuovo dei passi in una sala da ballo, e fu come se il mondo intorno a me sparisse. Non mi importava delle altre
ragazze che mi guardavano con un misto di stupore e ammirazione, né dell’insegnante, né che fossi fuori allenamento. C’eravamo solo io, la musica e la danza. La mia danza. Mi fermai solo quando la melodia terminò, e fu come se dentro di me fosse scoppiata una bomba: la mia anima, il cui vuoto era stato colmato dalla musica, si riempì improvvisamente di tutte quelle emozioni che non avevo mai provato in questi mesi. C’era il dolore, certo, un dolore immenso e atroce, a tratti insopportabile, ma non solo: anche tristezza, gratitudine, nostalgia, voglie di vivere, rabbia… e non potei fare altro che scoppiare a piangere. Piansi, per la prima volta dalla morte dei miei genitori e dal terremoto. Piansi per ciò che avevo perso, ma non solo: piansi i mesi che avevo sprecato, piansi per i miei pensieri suicidi, piansi per aver ritrovato qualcosa per cui valesse la pena vivere. La sera, quando tornai a casa in lacrime, abbracciai mio fratello. Lui rimase per qualche istante paralizzato dallo stupore. Poi pianse insieme a me, per la felicità di aver ritrovato sua sorella. Il giorno successivo mi iscrissi a quella scuola di danza, compiendo così il primo passo verso un cammino che mi portò a ricostruire la mia vita. Questo fu lento, lungo e non senza ricadute: passai i primi mesi a piangere la morte dei miei genitori. Ma la sofferenza era proprio ciò che mi faceva sentire viva. Trascorrevo a danza tutti i miei pomeriggi, perché solo quando ballavo il mio dolore sembrava placarsi almeno un po’. Pian piano però questo cominciò ad affievolirsi: non se ne andò mai del tutto, ma perse progressivamente la sua capacità distruttiva. Ogni tanto mi capitava addirittura di sorridere, come quando l’insegnante di danza mi faceva i complimenti o vedevo mia sorella e mio fratello felici. Un pomeriggio mi resi conto di non sopportare più l’idea di sprecare il mio tempo a guardare il muro, e così presi tra le mani un libro. Il giorno dopo, a scuola, risposi per la prima volta alla domanda di un professore, lasciando tutti senza parole. Ed infine, un giorno di maggio, le mie compagne di danza mi invitarono a mangiare un gelato con loro. Questa volta non rimasi in silenzio, anzi: parlammo di scuola, di ragazzi, della nuova coreografia che stavamo montando, ed io mi sentii capita, compresa, accettata. Avevamo così tante cose da condividere che avrei voluto la sera non arrivasse mai. Mentre tornavo a casa scoppiai a piangere, ma di gioia. Non mi ero mai sentita così viva. Così piena. Solo allora capii. Ognuno reagisce al lutto in modo diverso, e la mia reazione era stata l’apatia. La mia mente, terrorizzata che il dolore per la perdita mi avrebbe distrutto, mi aveva impedito di provarlo, bloccando difatti la mia sfera emozionale. In questo modo, però, avevo smesso di sentire e provare qualsiasi cosa. Tranne un devastante senso di vuoto. Quando infatti una persona cara se ne va, siamo certo oppressi dall’idea che non la vedremmo più, non le parleremo più, non potremmo più condividere la nostra vita con lei. Ma ciò che maggiormente ci fa soffrire è la quantità di affetto che vien meno, tutta d’un colpo. Improvvisamente ci sentiamo molto meno amati, e più soli. Per questo è così difficile superare la morte di una persona cara: maggiore era la quantità d’amore che ricevevamo da lei, più grande è il vuoto che si crea alla sua morte. Questo vuoto non potrà mai essere colmato del tutto, perché nessuno potrà mai sostituire le persone, e l’amore, persi, ma può essere ridimensionato, e solo grazie a dell’altro amore. È l’amore che salvò mio fratello, è l’amore che salvò mia sorella, ed è l’amore che, alla fine, salvò me: l’amore per la danza. La danza aveva riattivato la mia sfera emozionale, e questo inizialmente era stato distruttivo, perché era crollata ogni mia difesa contro il dolore. Ma aveva anche restituito così tante emozioni da esserne sopraffatta: la gioia di ballare, la soddisfazione di vedere i propri sforzi ripagati, la felicità di aver trovato delle amiche che, non conoscendo la mia storia, non mi giudicavano e mi apprezzavano così com’ero. La danza mi salvò, mi fece tornare a vivere. Perché, dopo un evento che ti ha distrutto totalmente la vita, l’amore è l’unica cosa che può darti la forza per rimettere insieme i pezzi.
SEZIONE F – Racconto di 100 parole singolo a tema libero (per giovani under 18 e classi di istituti di scuola media superiore)
UN NUOVO INIZIO – CHIARA BOLLINI
L’ aeroporto. Un luogo dove puoi osservare gente che si disperde e sembra correre senza meta. Un luogo fatto di saluti, addii, arrivi, partenze. Un luogo in cui, spesso, esplodono le proprie emozioni e si manifestano stati d’animo: felicità, tristezza, ansia, paura. In aeroporto incontri persone, a te sconosciute, di cui non sai niente e loro non sanno nulla di te; ma ognuna ha la sua storia da raccontare… ed io con questo viaggio inaugurerò un nuovo capitolo della mia. Mi giro salutando un’ultima volta i miei genitori e mi dirigo verso il gate, ansiosa per questo tanto atteso inizio.
SEZIONE G – Racconto di 100 parole singolo a tema libero
DOMANI –SERENA AGOSTINELLI
Tendine rosse, capelli raccolti e martini dry.
Rido dei desideri futili a cui mi aggrappo ancora.
Piove.
Le gocce solcano il viso e nascondono il pianto.
Leggevo romanzi da ragazzina, dove l’amore vinceva sempre.
Centinaia di gocce ovunque.
L’asfalto è troppo vicino, sono accasciata al suolo.
-Beata te-
dicevano.
-Così decisa nel perseguire il tuo sogno d’amore-
Demoni, che inducono alla dipendenza affettiva e ti strappano l’anima lasciandoti
esanime con gli zigomi fratturati e un fondotinta che non fa miracoli.
Vetri infranti e dolore.
Ho paura. Che torni. Che non torni più.
Tendine rosse, capelli raccolti e martini dry, domani!
Primo classificato assoluto Euro 150,00 (Premio unico)
LICEO “GIOVANNI COTTA” DI LEGNAGO (VERONA)
Sezione C
TRENO DELL’AMORE PERSO – BENEDETTA CREMONESE
Ci fissava l’occhio del tempo,
con lancette al posto dei baffi si prendeva gioco di noi.
Godeva ad accelerare l’avvicinarsi della partenza.
Pochi minuti, ma la distanza che prenderemo non sarà novità.
Il nostro amore, due treni in corsa su binari divergenti.
C’è quel momento prima dell’addio dove ci si guarda
con occhi di speranza, magari non tutto sta per andarsene.
Ma il suo arrivo investe il cuore, che rassegnato si abbandona
alla consapevolezza. Subisce una battuta d’arresto,
assordante fischio, il nostro sordo abbraccio non lo sente,
insensibile al frastuono del mondo.
Le nostre mani si sfiorano per un ultimo istante,
le lacrime rigano il viso e giungono al bacio, rendendolo sapido.
Partire è fuggire, l’addio che nessuno vuol pronunciare.
Lui se ne va e non s’affaccia al finestrino,
si volta e non guarda attraverso la finestra dell’amore,
lui, instabile pendolare ha fatto la spola tra l’amo e non l’amo.
Il treno sferraglia, le ruote scorrono alla perfezione sulle rotaie
ma, seppur incastrate, perfette metà combacianti stridono.
Il treno si mette in moto, pian piano prende velocità come noi.
Ma giunto allo stremo delle forze sbuffa,
insaziabile dell’ardente carbone che lo alimenta,
stanco degli sforzi si lascia andare.
I nostri viaggi avevano già intrapreso strade differenti
e la partenza è pretesto. Amore scardinato, deragliato,
mai giungerà a destinazione, cuore.
REQUIEM – GIACOMO GIUSTO
Lacrimoso il giorno, che dalla cenere
ardente si leva la pace ristoratrice.
Del pianto antico non si cura il sole
ombroso, che risplende il paese
silenzioso, solo tra la miriade di campi
ricolmi di vita.
E giace guardingo l’antico campanile
coronato dagli uccelli,
che tra le guglie hanno dimora.
Pigra scorre l’acqua insinuandosi
per giocare tra le gambe del ponte
per ritornare poi dal padre fiume.
FELICE – LAURA NORTILLI
Rivederti
sarà allentare la corda
che giorno dopo giorno
si stringe più stretta al mio collo
Sarà livido quando lo bacerai
– io sarò livida dentro –
Per quel poco ingannerò l’affanno
chiuderò a chiave il tormento …
Non la vita, ma tu
sarai il mio cappio
e io sorridente
smetterò di respirare piano piano
rallenterà il mio cuore
_ tum tum _
Non morirò pallida fredda tremante muta
una volta ancora
ma ebbra e calda di te lentamente
Risorgerò fenice
Sceglierò l’amore
per essere
finalmente
felice
BATTITO – CAROLINA ULIANA
Respiro, mi blocco
e riprendo.
Tutumtutumtutum
Parti di me se ne vanno.
Tutumtutumtutum
Ritornano, cambiano
e scorrono.
Il tempo passa lento
ma il rumore rimane.
Tutumtutumtutum
Lo ascolto, corro
e lo sento.
Tutumtutumtutum
La vita ce l’ho ancora dentro.
Tutumtutumtutum
Suono delle scelte
che scandiscono il tempo.
FIUMI DI PENSIERI – GIORGIA VOLTA
Seduti in riva al lago,
io, i miei pensieri e i miei rimorsi
ci teniamo compagnia.
Non una voce,
non un fiato.
Come se il vento,
non volendomi disturbare,
stesse trattenendo il respiro.
E le acque tacessero,
nella speranza di percepire
qualcosa di me.
Calma piatta nell’intelletto.
Prendo un sasso
tondeggiante e liscio.
Lo lancio.
Il primo rumore.
Basta quel piccolo suono
e tutto cambia.
Un frastuono intollerabile,
fiumi di pensieri e riflessioni
scrosciano nella mia mente.
Ogni considerazione
cerca di prendere il posto di un’altra
causandomi confusione e smarrimento.
Naufrago in un mare di questioni irrisolte.
Mi attacco all’ultimo briciolo di lucidità.
La mia ancora di salvezza.
Pian piano riacquisto coscienza,
pian piano riacquisto felicità.
E tutto tace ancora.
Secondo classificato assoluto Euro 100,00 (Premio unico)
SCUOLA DELL’INFANZIA G.DELEDDA DI BOLOGNA
Sezione C
LA FELICITA’ E’ – Poesia composta da 25 bambini di 5 anni
Armonia,
stare con gli amici,
risate ed emozioni,
fare sogni belli,
la neve,
scoprire cose nuove,
amore,
rimanere piccoli,
aprire i regali,
fare giochi d’avventura,
leggere tante storie,
una merenda insieme,
cantare ogni giorno,
arrampicarsi sugli alberi,
andare sull’altalena,
regalarti un fiore,
mettere le scarpe di papà,
abbracciarti,
saltare nelle pozzanghere,
un mondo fatto di latte e biscotti,
fare insieme l’albero di Natale,
trovare l’amico del cuore.
Nota: Abbiamo svolto varie attività relative al tema della gioia con la finalità di fare emergere come sia importante e bello riuscire a trasmetterla agli altri, grandi e piccini, soprattutto se si tratta di persone in difficoltà.
Inizialmente per coinvolgere emotivamente i bambini, le Insegnanti hanno recitato alcune scenette aventi per tema la felicità e il suo contrario nella vita quotidiana.
Si è cercato di far capire ai bambini l’importanza dell’affetto, di favorire rapporti interpersonali, di creare gioia nello scambio per evitare la tristezza della solitudine e dell’emarginazione, di evidenziare la bellezza del dono e dell’aiuto, di comprendere com’è confortante un caldo abbraccio.
Successivamente ogni bambino ha espresso spontaneamente cosa significasse per lui la felicità. I loro pensieri hanno fornito ispirazione e materiale per la stesura di“La Felicità è”. Infine è stato scritto dai bambini il testo della poesia, decorato con tutti i loro disegni. Di seguito la foto del pannello realizzato dai nostri 25 piccoli alunni.
Insegnanti Raffaella Serenari e Nicoletta Suzzi
Per conoscere l’elenco completo dei Vincitori clicca qui
Scrivi un commento